Il ragazzo con la maglietta azzurra
C'erano estati che sembravano promesse. E noi ci credevamo.
Avevo tredici anni e una bici bianca nuova fiammante. Ruote grosse, cestino in paglia bianco. La prima bici “da adulta”. Per arrivare dalla Valle alla City (come la chiamava papà).
Andavo in paese ogni giorno, ma la verità è che non era il paese a chiamarmi: era quel giardino.
Nel giardino dell’hotel vicino a casa, c’erano due fratelli che trafficavano con una bici. Uno, il più grande, aveva un ciuffo biondo sugli occhi brillanti e castani, una maglietta azzurra con scritto NIKE in bianco, e un sorriso timido con le fossette.
Il ragazzo più bello che avessi mai visto.
Quando lo vidi la prima volta, fu come se tutto rallentasse. L’immagine è ancora impressa nella mia memoria, un’istantanea che non perderà mai i suoi toni accesi.
Cominciai a passare di lì ogni giorno, con la scusa di andare giù. Sempre alla stessa ora. Sempre con un filo d’emozione nello stomaco.
Dopo qualche settimana ci presentammo.
E da lì cominciò tutto.
Non lavoravamo ancora, ma quell’estate era già piena di emozioni nuove.
Ci bastava guardarci. Scoprire le abitudini. Sorridersi di più ogni giorno. Giocare. Abbracciarci di nascosto.
E quando finì la stagione, avevamo già deciso che ci saremmo rivisti.
L’anno successivo, per passare più tempo con lui, iniziai a lavorare proprio lì, nel suo hotel.
Lui era in cucina, io lavoravo anche in sala, ma ero un po’ un jolly tuttofare.
I clienti ci adoravano. Giovani, carini, innamorati.
Ci lasciavano mance come se volessero premiarci per l’innocenza che portavamo addosso.
E poi c’era sua madre, che ogni tanto ci portava alle sagre, a ballare. Bionda, occhi azzurri, alta, bellissima.
Ma la vera complice era la zia: una donna pazzesca, sportiva, affascinante e dalla mente aperta, comprensiva e libera; la zia ci ospitava a Pietra Ligure e ci portava con sé in piccoli viaggi e… cosa incredibile per quell’epoca… ci lasciava dormire insieme.
Dormire abbracciati tutta la notte era la cosa più meravigliosa che potesse accaderci.
Al mattino lo svegliavo con fatica.
Dormiva come se il mondo potesse aspettare - ed in effetti lo faceva aspettare!
Facevamo tutto insieme.
Libri, arte, musica, viaggi.
Ogni anno andavamo a Firenze a portare un fiore sulla tomba di Foscolo.
E per il mio compleanno, prendevamo treni infiniti per arrivare a Venezia.
Non erano gite romantiche. Erano rituali. Nostri.
La sua famiglia, all’inizio diffidente, finì per accogliermi come la figlia femmina che non avevano mai avuto.
E ogni estate tornavamo a Calizzano.
Tre mesi intensi. Poi di nuovo le distanze: Genova e Lavagna. A quell’età ed a quell’epoca ci sembrava di vivere in due diversi continenti. Ma nulla ci poteva separare.
Cabine telefoniche. Telefoni con il lucchetto.
Mia madre cercava di arginare le spese telefoniche. Ma io scassinavo il blocco, che manco Houdini.
Quelle chiamate serali erano il nostro ponte.
Un "ci sei?" sussurrato bastava per far passare la giornata. E poi mille parole, per dirsi nulla e tutto, e sussurrarsi goffe promesse fatte di per sempre e di mai.
Era un altro tempo.
Non c’erano messaggi, né videochiamate.
Non c’era la possibilità di scrivere “ti penso” cento volte al giorno.
Ogni cosa andava concordata.
Un appuntamento si dava e si rispettava.
Una telefonata si aspettava per ore.
E se il telefono era occupato… si aspettava ancora.
Ogni gesto era prezioso.
Ogni parola, una conquista.
E forse anche per questo, tutto sembrava più vero.
Sono passati più di trent’anni.
Ci sentiamo ancora.
Non siamo più insieme, ma a volte penso che se avessi vissuto la vita con lui…
forse, sì, ci avrei anche fatto dei figli.
Ma certe storie sono perfette così.
Né iniziate, né finite.
Con una bici bianca che scivola in discesa,
e un ragazzo con la maglietta azzurra
che non ho mai davvero smesso di aspettare.
Incredibile vero? riuscire ad avere un appuntamento e rispettarlo senza l’ausilio del cellulare…..ah che figata.